Collegato (e analogo) a questo procedere, vi è la scomposizione del quadro in due parti fondamentali: più riquadrata l’una, senza immagini leggibili, serve a denotare uno spazio vuoto, ricco solo di parvenze viscerali, realtà «altra» da scoprire e da indagare. allusiva, simbolica, evocativa; più aperta l’altra dove il personaggio subisce «la sua storia» senza poter reagire alla machina che l’opprime, più descrittiva, più narrata, più prepositiva. È la dicotomia del rapporto realtà/fantasia che ripercorre gran parte della cultura europea contemporanea (intendendo il secondo termine in senso anti-romantico, concreta presenza poetica, al pari della realtà) e che trova una rappresentazione caratteristica nella struttura compositiva nell’opera di Bresciani. Infatti i colori che si stagliano in queste opere, spesso allusivi, più sovente allucinanti e spettrali, i colori di Bresciani, dicevo, nella negazione del «nero» di partenza, lo riaffermano come qualità concreta del dire: il dettaglio è analizzato (e suggerito nel contempo), la figura è evocata (e richiamata da quantità anatomiche calcolabili), gli spazi sono rigidi (e ristrutturano la realtà bidimensionale dell’opera senza per dere la loro funzione di «spazio altro»), la macchina è fantastica (e tecnologicamente realizzabile o, culturalmente, mostruosamente aggressiva). Vi è tutto un riprendere certi «temi» della nostra cultura, con in più l’oppressione e l’angoscia di un dramma incombente.

A volte Bresciani «cade» nella tragedia: più spesso il dramma angoscioso diviene aperto contrasto comunicativo con il «dire tecnologico», questa fiducia nella macchina che permea sotterranea la nostra cultura (dal futurismo in poi) e che determina la nostra illimitata superstizione verso un positivo orizzonte. Ma da questa angoscia, da questa paura (ecco la pregnanza del dramma, suggerimento senza storia, o storia senza vicenda), scaturisce quell’ossessione del «dipingere», quel colore illividito e allusivo: il riquadro dell’opera si richiarisce come realtà «altra» rispetto la prima, come supporto mnemonico al dramma presente, o come cupa presenza che incombe sul protagonista (e la nomenclatura ripercorre le tre possibili soluzioni di riquadratura nell’opera). Allora il rapporto realtà/fantasia va riletto sotto la spinta di questa presenza ossessiva che delimita la realtà e impedisce una visione fantastica chiara e definita: da qui si spiega l’apparente contrasto tra i grumi viscerali (di eredità esistenziale) e l’annotazione realistica; da qui quel senso di struttura surreale, intesa come componente ironica di una realtà concreta, che trasferisce il dramma in un momento fantastico, ma non meno identificabile. È un rifiuto della denuncia «diretta», ma non lo scadimento a operazione chimerica; è il rifiuto della cronaca, ma non della storia, come momento di riflessione sulla «realtà» quotidiana, che non ha bisogno dell’annotazione documentaria, ma si ritrova in ogni situazione uma-na. La realtà più profonda che Bresciani descrive (in senso connotativo e non denotativo) è il senso di inquietudine, il senso di angoscia che permea questa nostra quotidianità, che agisce come molla sotterranea dei nostri discorsi (anche delle nostre evasioni, reali o culturali), come presenza incombente in una realtà- lacerata e struggente.

Riletto in questo senso, il cammino di Bresciani appare chiaramente inseribile nel tessuto profondo della nostra realtà storica. Non gioco d’evasione, l’operazione «della pittura» diviene strumento di comunicazione, di chiarificazione e si ricollega da un lato al passato esistenziale. al senso di dramma (di cui più sopra tentavo un esame analitico) e di angoscia che trova le sue connotazioni più recenti nell’ambito neo-figurativo ed i suoi inizi nelle formulazioni preespressioniste di un Ensor o di un Mun-ch: dall’altro al senso di ironia surreale, con caratteristiche linguistiche tipicamente mediterranee (e Bresciani è un pittore italiano), ma con caratteristiche culturali di sapore latino-americano (e pensiamo a Matta, ad Antonio Saura…); l’opera di Bresciani si inserisce in un settore fertile della nostra poetica contemporanea. Al gioco freddo dello sfasamento, del ribaltamento, ecc. (ti-pico dell’avventura visiva di derivazione «pop»), Bresciani contrappone il peso co-sciente di una realtà esistenziale, il peso di un dramma angoscioso che trova (perché non in Hiroshima?) radici profonde nella nostra cultura. ma che è, nel contempo, liberato dall’epos romantico. Per questo la connotazione contenutistica approfondisce una seria indagine sull’oggi, anziché trasferirsi nei mitici paesi dell’Eldorado; la soluzione di Bresciani rappresenta uno dei due poli dell’odierna figurazione (e mi riferisco proprio al mento allusivo, non a quello dichiarato, Verto, come in una tragedia).

In questa prospettiva, la macchina articolata che attanaglia da più parti il personaggio (sequenza prepositiva molto frequente in Bresciani) suggerisce, da una parte, una visione teconologica antifideistica, dall’altra ancestrali paure (e si trasforma in mostruoso ragno, in abnorme mostro delle fantasie liberty): lo strumento-laser che scruta im-pietoso le viscere dell’umanità, è anche l’inconscio collettivo dei nostri sogni inquieti; il personaggio lacerato è anche il nostro inconscio martoriato, ma richiama più crudeli «presenze della nostra realtà storica. In bilico tra realtà e fantasia, Bresciani conchiude il suo discorso su questa continua presenza «alternativa»: è lo spazio aperto, non ancora violato, ora strumento aggressivo e connotato con colori allucinati, ora possibile speranza verso cui si muove il protagonista. È ancora la storia dei nostri turbamenti, la crisi dell’intellettuale nell’attimo stesso della prassi, il rapporto costante tra un’idealità vicina e l’ineluttabile dimensione storica che allontana questo ideale; e, sopra questa dicotomia, dominano la sottolineatura costante dell’assurdo, il gelo dell’ironia e del sarcasmo, l’ossessione di un’impossibilità che disperatamente tentiamo di realizzare. Dicembre 1974

MAURO CORRADINI