Non saprei dire se in Bresciani prevalga l’amaro dell’angoscia, con tutto l’accumulo di tensioni e scompensi esistenziali che intessono il dramma e la tragedia, o piuttosto una sorta di rabbia gelida posta come un cristallo fra la realtà, vetrificata nella memoria presente, e l’artista condannato al giudizio, alla sentenza etica. Certo è che ambedue i momenti s’intrecciano e, proprio quando la denuncia si fa più esplicita e sicura, appaiono nel dipinto i segni d’una oscura inquietudine dei sensi, un tremore nel dire, che subito si raggelano in immagine portando ambiguità là ove c’era chiarezza, oscurità nel segno più dichiarato, mistero nel simbolo meno mediante. Le forme aggressive, le sopraffazioni, le minacce, le maternità incrudelite d’aculei e voragini sono – o almeno «appaiono» nel fantasma dell’immagine – segnali posti al crocevia del vivere comune e, insieme, cifre del mistero, enigmi irrisolti di un sentire profondamente individuale. Non v’è contraddizione in ciò, o v’è tutta la contraddizione del nostro tempo di storia, inafferrato e incombente, limpidissimo e impenetrabile, segnato dalla improbabile probabilità d’una tragedia che investe, concretamente e assurdamente allo stesso modo, l’uomo e il congegno, la carne dilaniabile e la durezza non scalfita dell’oggetto, nel suo efferato esistere, ed agire, nell’implacabilità del rigor mortis che qualifica, appunto, l’oggettività ispessendola di sangue e di carne, almeno quanto la carne ed il sangue d’uomo prendono spessori di metallo e durezze di vetrocemento.

Prima di tutto il nero, ha scritto Corradini nel dar inizio a un suo discorso su Bresciani; e in fondo a tutto il nero, si potrebbe aggiungere, tanto incombe quella profondità di morte che la dissolvente fantasia barocca screziava d’oro intenso e che qui s’accende soltanto di lividi bagliori, strappi di laser, iridiscenze dell’ovvia spettralità quotidiana. Non mancano le possibilità di citare per Bresciani antecedenti dal punto di vista formale, ed anche artisti certamente congeneri ai quali di volta in volta si può ripensare: da Matta e Lam, ad esempio, a Sutherland e Bacon; dalle lacerazioni informali fino ai grovigli frenetici dell’action painting, tutte esperienze già rilevate al loro giusto grado di incidenza dai critici che si sono occupati di queste opere. Ma si diceva di congeneri, e non v’è dubbio che, con un carico in più di gelo tecnologico, Bresciani s’apparenta per elezione ad artisti i cui nomi ricorrono nei dialoghi dei quali ama adornare, o imbruttire, i suoi cataloghi: Leon Golub, prima di tutti, e l’alluciante Jardiel o il notturno Orellana. Solo che in lui la materia si rifiuta di marcire, e il sudario di aggrovigliarsi troppo su cose e volti. Anzi, tutto sembra dannato a una sempre maggiore articolazione, a trasformarsi in leve tesissime, in tendini e pulegge, come se la morte, la dissoluzione della carne, producessero oggetti, strumenti, appunto, per una scarnificazione ulteriore. Così tutto si dispiega, e si fa limpido nel momento stesso in cui s’oscura il senso delle cose travolte nella rabbia impotente e nella paura della vita, se non del vivere.

Che dire ancora? Dell’ironia, o del riciclaggio delle metafore surrealiste di cui ha così ben scritto Elda Fezzi spostando il discorso delle.fondanti ambiguità di Bresciani sul piano degli antecedenti formali? Se l’ironia è, come credo, distacco e penetrazione insieme, ebbene se ne parli pure per sottolineare quel molto d’ambiguo (prima ho detto di contradditorio) che circola in questi dipinti. Allora sarà ironia leopardiana, non certo ariostesca, quale appare nei dialoghi a catalogo pur dettati a denti abbastanza digrignati. Non stupisca quel «leopardiana» che ho messo lì provocatoriamente per richiamarmi un istante, e per iperbole del tutto premeditata, a un ineliminato «romanticismo» di Bresciani, collegandomi a ciò che dicevo all’inizio circa il sentire individuale di questo pittore solo apparentemente gettato allo sbaraglio dell’engagement. Di individualismo aveva del resto già parlato Corradini riferendosi all’esperienza informale intesa come violenza, ma a me sembra che il distacco (ironia?) dalla realtà oggettiva sia per Bresciani condizione del suo attuale immergersi nella sfera degli oggetti, tentandone la violenza, anzi scatenandola con decise sottolineature. Non è questo l’atteggiarsi a una resistenza nei confronti di una società che si sente «altra» e a cui, come diceva Banfi, la «persona» (in questo caso l’artista) si oppone dialetticamente per non lasciarsi assorbire? Con qualche tremore, forse, come per un tradimento che non si vorrebbe consumare e che si sente necessario: e con una tristezza che travalica nell’angoscia per ciò che potrebbe essere e non è, e per ciò che è e non dovrebbe essere.

È implicito, in tutto ciò, un moto moralistico, ma quando mai l’artista si è sottratto al dovere di esprimersi anche eticamente? Di fronte all’aggressione, alla tortura, allo stravolgimento della stessa immagine dell’uomo in ganglio meccanico o, peggio, in macchina inutile, Bresciani tenta evidentemente il grido dell’uomo solo ma, ed è qui la vera tragedia che la sua arte esprime, l’urlo si traduce nel silenzio dei codici espressivi di cui la comunità si è appropriata. Così tutto si traduce nella orrenda bellezza del fatto estetico che consuma ogni possibile eticità e raggela perfino la paura, antica e presente, in una sorta di metafisica del quotidiano, trasponendo la coscienza che fu dell’uomo nella implacabile logica dell’oggetto biologico.

Franco Solmi Direttore della Civica Galleria D’Arte moderna di Bologna

Novembre 1975